
Robert Smith che canta Picture of you e l’universo che impazzisce con me dentro, come un gatto imprigionato in una lavatrice accesa muore nel suo piccolo uragano elettrico, ed io che dimentico di preparare il pranzo e rimango a cantare con gli occhi immotivatamente lucidi e le cosce scomposte in modo plastico. Succhio gambi di sedano ed è già pomeriggio, cazzo, identico a ieri, ed io ho sete di immortalità.
E stasera esco con un uomo diverso, e lo so che tra capelli e trucco e foto per immortalare i miei vent’anni non riuscirò a combinare niente. Rimpiango il liceo meticolosamente scandito 8.30 – 14.30: Le notti ed i giorni si somigliano, sbiadiscono gli uni negli altri senza definirsi mai e passano a miglior vita come morti bianche.
Quello di stasera è un avvocato basso dal culo carnoso, mi passa a prendere in macchina e mi porta in un appartamento noleggiato traboccante di specchi che sembra vogliano rubarmi l’anima e lasciarmi vuota come la scorza secca di un’arancia. Stasera mi sento impietosa. Lui si inginocchia e blatera parole che non ricordo e supplica ansima si piega come un verme: ed io lo so che gode e che vorrebbe che fossi sua, soltanto sua, nient’altro che sua e lo riempio di calci, il verme, calci ben assestati nel suo ventre poco sodo, e mi tolgo gli stivali per picchiarlo meglio, e striscia davanti a me col sesso umile e turgido, e vorrei che implodesse, che si contorcesse fino a spezzarsi. Il punto è che il mio disprezzo corrode solo me e tutto ciò che ho intorno gira gira e gira nel proprio senso ignorando il mio, e mi sento anche io un piccolo insetto impotente, e non posso ammazzare questa larva dal cazzo inesistente che mi lascia 200 euro sul comodino della stanza e se ne va, ed io già non ascolto più quello che dice mentre si riveste e abbandona la scena come un granchio dopo aver baciato i miei stivali e poi il pavimento ed il bicchiere sporco di rossetto Rouge lacca che mi riempie sempre di tristezza, come una vecchia diva che guarda foto sbiadite della giovinezza.
Apro il frigorifero e bevo del Crystal lasciato lì dal verme. Alcune gocce rigano il mio mento e cadono sul corpetto, lentamente, macchiandolo.
Mi affaccio al balcone e vedo il cielo incerto, grigio smorto, su uno scorcio di città che non mi appartiene, e mi mancano i profili conosciuti adagiati davanti alla mia finestra che non guardo mai ma ci sono sempre, un po’ come i nonni, quando stanno male e ti rendi conto che non gli hai mai detto ti voglio bene.
E questo cielo pesa, nessuna nuvola intacca nessun colore, e sembra l’acquerello pallido di un pittore respinto, che affoga i sentimenti sulla tela opaca e dipinge col petrolio che mi cola addosso.
Torno a casa relativamente presto, mi districo tra le strade pensierosa e svelta mentre la luna alta e sorniona ondeggia dietro i palazzi che circondano il laghetto. Sull’autobus i ragazzi per bene in felpa Guess e pantaloni necessariamente D&G vorrebbero non guardarmi dall’alto dei loro futuri preimpostati ed invece lo fanno perché la ragazzina a fianco probabilmente scopa come mia nonna e puoi scavare un buco nella sabbia umida, è lo stesso, e gli uomini sono animali e le donne sono animali insicuri e non va bene. Ed io li vedo questi protodirigenti a farsi sodomizzare da trans folcloristici e troie datate e venire fino a morirne e poi tornare dalla nel frattempo mogliettina che continua a scopare come mia nonna, solo ogni week end perché in settimana lavora. Questa tristezza mi diverte, e mi distoglie dagli immigrati senza la poesia dei Modena City Ramblers che dal fondo dell'autobus mi lanciano occhiate e li senti puzzare carichi di sesso, e piscio, e sudore e vorrei quasi morire perché la tristezza prima amaramente diverte e poi contagia ed è tutto troppo simile ad una macelleria, invece è il mondo che ti divora, che è sempre affamato e puzza, si decompone, brilla e si trascina ed io con lui, tentando di scappare.
Non ricordo più quand’è stata l’ultima volta che ho tentato di cambiare il mondo.
La città è illuminata come un presepe ateo, e mi va bene così.
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